Al Preside della Facoltà
di Architettura di Siracusa
Prof. Ugo Cantone

e per conoscenza            Al Rettore
dell’Università di Catania

prot. n. 1671 del DICA

Caro Preside,

tu sai con quanto entusiasmo e passione mi dedico all’insegnamento universitario. Forse troppo, tanto che l’impegno quotidiano non lascia spazio ad altro. Questa settimana di agitazione contro la legge Moratti, con le numerose occasioni di discussioni e confronti, mi ha spinto a fermarmi un attimo a riflettere sul nostro presente e sul nostro futuro. Riflessioni, anzi meglio constatazioni, quasi banali su una realtà che è continuamente sotto i nostri occhi, ma che forse cerchiamo di ignorare per la paura di ciò che vorrebbe dire accettarla.

La ricerca e la didattica nell’università si sono sempre basate in buona misura sul contributo di giovani non ancora di ruolo, ma che aspirano ad esserlo. Io stesso sono stato “precario” per sette anni, dal 1975 al 1982. Ma negli ultimi anni la situazione è precipitata, principalmente per due motivi:

-     la riforma universitaria, che ha portato ad un incremento dei corsi di laurea, di base e specialistici, e quindi degli insegnamenti da svolgere;

-     la contemporanea riduzione dei finanziamenti assegnati dal ministero alle università.

Per quanto riguarda il primo motivo, buona parte della colpa è anche di noi docenti. Il mondo universitario ha subito una riforma di cui pochi erano convinti, ma – lasciato libero di operare – l’ha usata come occasione per espandersi. Non si deve però dimenticare – a parziale scusante – che la riforma prevedeva esplicitamente la limitazione del numero di studenti per ciascun corso e quindi indirettamente imponeva la scelta tra ridurre il numero di studenti o aumentare quello degli insegnamenti.

Il secondo motivo costituisce la goccia che ha fatto traboccare il vaso, o meglio il sassolino che ha bloccato l’intero ingranaggio. I finanziamenti che oggi le università ricevono dal ministero non bastano per l’ordinaria amministrazione, figurarsi quindi per bandire nuovi concorsi. La riforma della Moratti, o meglio del governo di cui la Moratti fa parte, non mi preoccupa tanto per quello che propone (che comunque non condivido) quanto per la logica su cui si basa, che mira a tagliare ulteriormente i finanziamenti alle università, riducendo il costo del personale. Eliminare la figura del ricercatore, oggi primo passo di ruolo nella carriera universitaria, e proporre come alternativa la stipula di contratti di insegnamento, senza definire che essi siano proporzionati al numero di corsi scoperti e siano retribuiti in maniera decente, implica il voler basare l’università su persone sottopagate (e facilmente gestibili). Sottopagate, perché oggi un corso a contratto viene retribuito con 3600 euro lordi (per il netto, togliere almeno un terzo tra contributi e tasse); quanti corsi dovrebbe tenere un giovane in un anno per sopravvivere (non dico vivere decentemente)? E che qualità si può pretendere da chi per campare deve tenere quattro o cinque corsi? Facilmente gestibili, poi, perché il rinnovo del contratto è sempre a discrezione dell’università e quindi in pratica del gruppo disciplinare da cui si dipende (ma in verità anche con le regole attuali la vita è dura per chi vuole ragionare con la propria testa).

E allora, che futuro ci aspetta se non vi sarà una netta inversione di rotta nella posizione del governo nei confronti delle università?

È facile prevedere un abbandono in massa dell’università da parte delle giovani leve. O nella migliore delle ipotesi un loro netto distacco: lavoreranno altrove, ma qualcuno deciderà sempre di dedicare qualche ora libera all’università, solo per il piacere di farlo, al posto della partita al pallone o a carte con gli amici. E magari qualche masochista, con una buona situazione economica alle spalle o con uno spirito francescano di rinuncia ai beni terreni, dedicherà più tempo alla ricerca seguendo il sogno inconfessabile di diventare – un giorno ben lontano – anche lui “professore”.

Se questo è il futuro, se non riusciamo a impedirlo facendo capire chiaramente al governo che non siamo d’accordo, allora è bene accettarlo fin d’ora ed agire di conseguenza. Questo vuol dire rinunciare a tenere in vita quegli insegnamenti e quei corsi di laurea, breve o specialistica, per i quali non si ha personale sufficiente per tenerli come compito didattico. Una scelta del genere, di forte ridimensionamento e di conseguente riduzione del numero degli studenti, deve essere presa ovviamente dalla facoltà. Ma io come singolo posso dare il mio contributo dichiarando di non essere più disponibile a tenere corsi per supplenza. Da oggi mi dedicherò, col solito impegno, solo al corso che tengo come impegno didattico ed alla ricerca.

Con questa lettera, quindi, dichiaro di rinunciare alla supplenza del modulo di Tecnica delle costruzioni, disciplina caratterizzante del Laboratorio di costruzioni II, rinunciando contemporaneamente a qualsiasi compenso per le lezioni fino ad oggi svolte.

Voglio terminare chiedendo scusa agli studenti del corso che abbandono. In questo mese e mezzo trascorso insieme abbiamo – spero – imparato a conoscerci ed apprezzarci reciprocamente. Chiedo scusa in particolare a chi si sente un po’ tradito da questo mio non rispettare impegni presi. E ricordo che io comunque sarò a loro disposizione, per telefono, per email o personalmente nella mia sede di Catania, per qualunque chiarimento o consiglio di cui possano avere bisogno nel futuro.

Catania, 16 novembre 2004

Aurelio Ghersi